misentropia

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Villa comunale, Napoli, 2007

Le mattine assolate di qualche anno fa le abbiamo impiegate in un progetto che tra di noi chiamavamo Misentropia fondendo in un’unica parola Misantropia ed Entropia . Ossia l’uomo che inizia a odiare gli altri esseri della sua specie – dunque se stesso – e contemporaneamente rifiuta di riconoscere le basilari leggi dell’entropia che lo rendono parte della natura. Un miscuglio pericoloso di individualismo sfrenato e prosciugamento delle risorse non infinite del pianeta.

A Napoli, era già il tempo di quella che i media hanno definito “emergenza rifiuti” ma i sacchetti invadevano le strade solo raramente; eravamo nella fase più pericolosa ma meno percepibile, quella degli scarichi di rifiuti tossici delle fabbriche del nord Italia nelle campagne dell’entroterra campano. Un meccanismo semplice in fin dei conti: smaltire legalmente costa troppo? La camorra lo fa a prezzi stracciati approfittando di un indiscusso quanto violento controllo del territorio, e di uno stato assente se non colluso. È così che la nostra regione negli ultimi quindici anni si è riempita di veleni.

Cercavamo un modo per discutere di queste e altre cose. Volevamo rendere visibile ciò che l’abitudine rende invisibile. Pensammo alla Villa comunale, parco pubblico stretto tra la città e il mare, circumnavigato da migliaia di automobili giorno e notte. Lì molti alberi, ancora mentre scriviamo, vengono tagliati perché si ammalano di inquinamento. Un paesaggio fatto di decine di tronchi segati: lapidi che testimoniano vite appena perdute. Decidemmo di dipingerli, farlo alla luce del sole nonostante non avessimo nessuna autorizzazione, e vedere cosa succedeva.

Un sabato mattina, primo tronco 

Iniziamo a pulirlo e prepararlo ad accogliere la vernice, si avvicinano subito delle persone. Bambini spesso accompagnati dai loro nonni o da babysitter quasi sempre immigrate. Allora iniziano le domande. Prima rivolte direttamente a noi, poi la discussione si allarga a tutti i presenti. I bambini chiedono: che fate? E noi: dipingiamo, vorremmo che qualcuno si accorga della morte di quest’albero. Ma perché muoiono? Non lo sappiamo bene, forse l’aria è malata, hai visto i rifiuti per strada? e poi ci sono troppe macchine qui intorno… E allora che dobbiamo fare – dice un vecchio – andare a piedi? Ecco, il dubbio è insinuato, la dinamite dialettica innescata. E allora il discorso si fa più ampio, il cerchio si allarga, arrivano i giardinieri del parco che, sentendosi un po’ coinvolti, restano in silenzio. I nonni napoletani iniziano a conversare con i collaboratori domestici srilankesi. Certo, lo fanno in un italiano che è razzisticamente coniugato all’infinito, ma è già qualcosa. Potrebbero iniziare a parlarsi con continuità e scoprire che non sono in fondo così diversi. Il dibattito continua, qualcuno aggiunge: Ma se non produciamo auto le fabbriche chiudono. Un vecchio signore risponde che quando lui era piccolo non c’erano molte fabbriche e viveva bene lo stesso. E ancora, e ancora… fino a quando una bambina, che avrà avuto al massimo una dozzina d’anni, non ci domanda: ma voi credete a Dio?

Oltre la pittura

Lo abbiamo fatto una decina di volte e sempre è successo qualcosa del genere. Ogni albero si è trasformato in un piccolo Speaker’s corner dell’Europa meridionale (o del nord Africa?). Sostituendo però al monologo in stile Hyde park un dialogo tanto più sincero quanto inaspettato e bizzarro. Più che di arte ci piace pensare a questo progetto come a un´operazione di politica culturale. Il rammarico è che ci sarebbe bisogno di una continuità che non possiamo garantire. C’è da pensare all’affitto, al cibo, ai nostri bisogni primari. Vorremmo continuare ma non sempre ne abbiamo la forza. E poi c’è che “la realtà è più avanti”…

Oltre l’immaginabile

Nel frattempo anche le discariche autorizzate, riempite di ogni sorta di rifiuto illegale, non avevano più posto per i rifiuti urbani. Quello che volevamo rendere visibile era diventato addirittura odorabile. Le scene a cui si poteva assistere camminando per le strade di Napoli – e soprattutto nella sua sterminata periferia – erano infernali. Spazzatura ovunque, alta fino ai primi piani dei palazzi, gente esasperata che bruciava tonnellate di sacchetti che ormai invadevano le strade. Un avamposto da terzo mondo in pieno occidente. Forse una finestra su quello che tutto il modo industrializzato vivrà tra non molto. La questione era ed è allo stesso tempo molto complessa e molto semplice. Complessa perché si è innestata su questioni irrisolte e tutte italiane (vedi rapporti mafia-politica, questione meridionale, lobby industriali voraci); e semplice perché può ripetersi in qualunque parte del mondo dove la produzione supera il consumo. Quello che i media ufficiali non dissero era che le emergenze erano almeno tre. Una ambientale, una igienico-sanitaria, e l’ultima – forse la più perversa – quella democratica. Con la scusa dell’emergenza si sospendeva ogni possibile discussione, ogni protesta veniva additata come sindrome nimby. Chiunque provasse a fare un ragionamento più complesso, dal sistema di smaltimento dei rifiuti ai sistemi di produzione, veniva equiparato a un terrorista. Tanto che alla fine i siti individuati come nuove discariche sono diventati “zone di interesse strategico nazionale”, ossia controllate militarmene dall’esercito. La camorra e lo stato qui sembrano essere due facce della stessa medaglia. Non dovremmo cedere alle intimidazioni dell’uno e dell’altro. Sono tempi strani i nostri, smettere di parlarne significa rinunciare a decifrarli, dunque mettere fine a qualunque tentativo di trasformazione. (c&k)