Mentre scrivo, ma anche mentre mangio, appeso alla parete giusto di fronte la mia tavola, osservo distrattamente una delle poche cose concrete – insieme a dei libri strenna natalizia che la fabbrica donava agli operai – che mi è rimasta di mio nonno. Incorniciato sobriamente, altro non è che un pezzo di carta, impreziosito da una minuscola medaglietta bronzea. In bella grafica, colma degli stemmi dei dieci comuni italiani che nel secolo scorso hanno dato il loro tributo alla civiltà dell’acciaio, c’è scritto:
F.R. ha lavorato per 30 anni presso la società
ITALSIDER del gruppo IRI-Finsider
In segno di gratitudine per la fedeltà al lavoro e all’azienda
gli viene conferito questo
DIPLOMA DI BENEMERENZA
L’amministratore delegato, firma. Il presidente, firma. Gennaio 1981
Era la fabbrica di Bagnoli ovviamente, ma questo seppur minimo legame spiega almeno in parte perché diavolo sono finito a Taranto. Una coincidenza, direte voi. Con questa parola s’intende un fatto accidentale e casuale, ma anche, in ambito ferroviario, una corrispondenza favorevole fra due o più treni. Ecco, uno degli altri motivi che mi hanno spinto per un anno a fare incursioni in Città vecchia è il fatto che per tornare a Napoli da Grottaglie – dove fino a qualche anno fa c’era l’unico festival di arte pubblica che avesse un senso, sia per le modalità con le quali si svolgeva, sia per i risultati e il cambiamento che operava sull’immaginario del paese – ero costretto a cambiare treno a Taranto. Prima di ripartire ci passava un’oretta che puntualmente impiegavo perdendomi. Era sempre di mattina presto e un’inerzia scirocca attraversava il ponte. Oltre a me in giro pochi cani randagi, qualche raro spazzino, dei pescatori. Camminando camminando mi sono fatto sedurre dalle pietre, le crepe, la ruggine. Guardavo tutte quelle puntellature e immaginavo un terremoto che non c’è mai stato.
Della Città vecchia di Taranto probabilmente nel giro di qualche decennio non resterà più nulla. Sarà sommersa dalle acque di due mari surriscaldati, o più semplicemente crollerà su se stessa (dopo secoli di dominio finalmente il domino) come di edificio in edificio continua a fare da molti decenni. Questo a ragionar da apocalittici, ma proviamo per un momento a guardare le cose da integrati. Ecco: i fondi europei, i privati, l’università, il turismo, le cozze biologiche e gli aperitivi. Comunque la si vuole vedere per gli abitanti storici non c’è scampo. Poi ci sarebbe quella che chiamano terza via, probabilmente una via crucis perché più faticosa, se vogliamo dolorosa, ma vuoi vedere cha alla fine ci potrebbe pure scappare il miracolo?
Metti che quelle persone che ostinatamente abitano ancora i palazzi barcollanti della Città vecchia decidano, insieme, di mettere a posto pietra su pietra, di angolo in angolo, vicoli e vicoletti da troppo abbandonati (tanti già iniziano a farlo). Metti che i corpi più giovani decidano che i loro bollenti spiriti possano e debbano trovare il loro combustibile in se stessi e non raccogliendo quegli aiuti lanciati istituzionalmente a mo’ di pioggerella. Abbiamo già dimenticato che la Cassa del mezzogiorno altro non era che una cassa da morto progettata per contenere il cadavere di un suicidato? Adesso immaginiamo pure, perché no, che si vada oltre gli slogan ottimistici di una regione tutta tesa al turismo di massa (Adda passa’ ‘a nuttata d’a Taranta!) e che i princìpi siano veramente attivi. A ben vedere il motivo di questi sforzi che chiedo prima di tutto a me stesso non è tanto quello di sistemare una qualsivoglia piazzetta, o (nel mio caso) dipingere su muri dimenticati, bensì quello di incendiarsi, darsi fuoco. Per forgiarsi, come e a dispetto di quell’acciaio che imperterrito avvelena la città.
L’attivazione ovvio, ma insieme all’osservazione: primo passo da compiere, quello che dà la gioia del mettersi in cammino e la consapevolezza dell’inciampo dietro l’angolo.
Ora, un’inchiesta può avere le più svariate forme: narrativa, fotografica, può essere filmata. Il mio approccio è certo pittorico (ma quì troverete anche della storia orale, altrove appunti filmici) ma in contemporanea fisico, di prossimità. Quante volte è capitato che i più piccoli mi portassero per mano a scoprire nuovi possibili luoghi da dipingere? Quante storie mi vengono riversate addosso mentre sono intento a mutare pelle a un vicolo buio? Tutto questo non rievoca – verbo da fantasmi mi rendo conto – lo scambio, il dono reciproco e postdatato in certe società arcaiche? E qui, a gamba tesa un verso di Majakovskij (ancora uno spettro), fa irruzione in questo breve testo: Cambiar di giacca fuori, è poco, compagni! Rivoltatevi di dentro!
Dicevo attivazione quando avrei dovuto dire, per precisare meglio i contorni, autorganizzazione, e mi tocca ribadirlo un’ultima volta: oggi che il coinvolgimento – chiamano partecipazione quanto vanno fotografando come testimonianza per il rimborso spese – viene usato come grimaldello per scardinare la cassaforte dei vari finanziamenti statal-comunitari bisogna opporsi con sempre maggior forza alla sua farsa. Smetterla di mostrare i muscoli del simbolico e iniziare a usare i nervi della persuasione.
La Città vecchia è un’isola, ma non è isolata da quanto la circonda, anzi, ogni cosa è evidente conseguenza di un’altra. Il suo svuotamento non è seguito all’arrivo dell’acciaieria? Il suo abbandono non è figlio di quella ingombrante assenza di un disegno generale, di una qualsivoglia visione d’insieme? E chi ci racconta dei suoi abitanti senza caricature, aggettivi abusati, formule consumate? Non è arrivato il momento di affrontare la realtà con mezzi non dico nuovi, ma quantomeno inusuali?
Farsi fuori. Mi sono detto questo prima di cominciare. Uscire di sé(nno) come asta per un salto più che in alto in largo, per abbracciare l’intera isola senza pregiudizi, percorrerla da nord a sud, da oriente a occidente, entrando nelle case, nei cortili abbandonati, sbirciando aldilà dei vicoli cementati, oltrepassando barriere che sono sì fisiche, ma molto più spesso mentali. Quante volte mi hanno scoraggiato dicendo: lì, ma sei pazzo? Brutta gente, è inutile (senza voler vedere che miseria e violenza camminano a braccetto). Ma non lo è anche il mio operare? Di una inutilità necessaria a me pare.
Che dipingere le strade sia lavorìo destinato ad andare in fumo è cosa nota, figuriamoci, ma pensate solo per un attimo a quanto potrebbero essere pervasive le polveri sottili che da questo fuoco vengono fuori: i racconti e i sorrisi, i pranzi le cene le birre, le amicizie, le grida e gli umori di una città che di vecchio ha solo il modo in cui viene governata; quel che resta nell’aria, dicevo, lasciamo che lo si respiri a boccaperta, come quel santo pugliese che, forse solo per scappare agli scagnozzi di un potere estraneo e nemico, aveva imparato, inciampando inciampando, a volare in un cielo impassibile. (cyop&kaf)
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